A Illegio torna la grande arte, Picasso e Monet tra le montagne della Carnia

L'appuntamento è dal 16 maggio al 17 ottobre.
Alexis Sabot

L’ELENCO DELLE OPERE

La presentazione a cura di Don Geretti

Non tutto cambia nella vita, ma nella vita accadono cose che cambiano tutto. Anzi, lo stesso vivere è in fondo un esser pronti a cambiare; solo l’inanimato e l’inerte restano sempre identici a se stessi.
I cambiamenti possono giungere repentini come temporale d’estate, o dipanarsi in ere d’estensione sovrumana come il mutare dei paesaggi o la rotazione delle galassie. Possono riguardare ciò che è inorganico, come le intime fibre della materia, o ciò che è organico, la sua evoluzione di specie in specie e quella dell’umano, che avviene nel destino e nel cuore di ogni singola persona. Mutano le forme visibili, come le fronde fiorite fragranti di primavera che diventano vampe fiammeggianti di rosso e di giallo sui sentieri di foglie in autunno, come la tenera fragilità del bimbo che inizia a formarsi nel segreto del grembo materno, poi superata dal vigore della giovinezza e nuovamente ricondotta all’essenziale nella fragilità delicata della vecchiezza. Mutamenti reversibili o irreversibili, provocati dalla necessità di adattarsi all’ambiente o suscitati dalla fedeltà a ciò per cui sentiamo che vale la pena vivere. C’è l’impulso a cambiare il mondo esteriore, con piglio rivoluzionario, o resistendo a sconvolgimenti della natura e della storia che travolgono e sfidano l’uomo nella sua capacità di reagire
e di ricominciare. C’è il bisogno del cambiamento interiore, morale e spirituale, di ascesa e chiarimento, di purificazione e di ritorno, poiché non l’eternamente immobile, né una perduta età dell’oro collocata in un fiabesco passato, ma l’oggi è il luogo della vita e il domani è l’unico luogo possibile della pienezza, del riscatto, del compimento di tante attese strenuamente portate dentro l’anima. Se l’evoluzione delle specie ha condotto i nostri progenitori a conquistare la posizione eretta, poggiandosi su due zampe soltanto, è perché l’uomo imparasse a vivere guardando avanti, non fissando la terra per la povera estensione di qualche metro.
Amori fatali, misteriose grazie, sparizioni improvvise, cataclismi mostruosi, scelte impegnative, scoperte esaltanti, gioie indimenticabili, dolori laceranti… così, mentre tutto scorre e molto muta, sentiamo che qualcosa non cambia, rimane. Per certi versi, apprendiamo, a furia di cambiamenti, che vi sono leggi del mondo fisico e del mondo umano che permangono immutabili, e realtà oltre il mondo fisico e quello umano che non passano e che non ondeggiano né si stravolgono come le mode o le stagioni: esiste la realtà immutabile, difficile da definire ma al tempo stesso difficile da ignorare, lo percepiamo sollevando lo sguardo sopra noi stessi, nell’intuizione del Tu eterno da cui tutto proviene e verso cui tutto è incamminato, e lo percepiamo guardando dentro noi stessi – ché da quando eravamo bimbi fino all’ultimo nostro respiro, tra mille sviluppi e ricollocazioni, vediamo nitidamente d’esser sempre il medesimo soggetto, il misterioso identico essere che come un forziere custodisce la memoria e gli effetti di tutto quel che ha vissuto e che, a dispetto della propria carne e delle proprie ossa, non ha età, non invecchia affatto –. Se si scrivono racconti di cambiamenti, se si dipingono immagini di metamorfosi, è per consegnare, a chi si mette in strada nel suo personale pellegrinaggio e affronta la sua battaglia, la conoscenza di ciò che non cambierà mai e, al tempo stesso, per aiutare gli altri a non lasciarsi cambiare in peggio l’anima dalle brutte storie che potremo passare o dalla superficialità di chi consuma l’esistenza senza l’incantevole travaglio del pensiero, della ricerca e della fede

IL PARADOSSO DEL CAMBIAMENTO E LO SGUARDO DEI MITI ANTICHI E DELLA LETTERATURA

Già Eraclito ricorda: «Non si può scendere due volte nello stesso fiume»; non soltanto infatti lo scorrimento continuo delle acque fa sì che il fiume sia il medesimo solo in apparenza, ma anche l’uomo che vi scende non è il medesimo, se non in apparenza, di quando vi discese precedentemente. L’idea del divenire rappresenta il cuore degli aforismi del filosofo greco vissuto ad Efeso cinquecento anni avanti Cristo, che aveva concepito la realtà come il risultato di uno scontro bellico fra enti contrapposti e il conseguente scorrere di tutte le cose: nella sua visione il divenire è pertanto un flusso continuo e la trasformazione è la condizione permanente del mondo. Eppure il concetto di cambiamento contiene un paradosso: è impossibile pensare adeguatamente qualsiasi metamorfosi se non in riferimento a una qualche forma di continuità. Se di cambiamento si tratta, significa che il punto di partenza e il punto di arrivo non sono il medesimo punto; tuttavia, se non c’è annichilazione della prima realtà e comparsa dal nulla della seconda, la trasformazione riguarda la medesima realtà che pur mutando rimane identica almeno in qualche sua dimensione, altrimenti si dovrebbe ragionare di sostituzione. Come il pensiero greco antico si incuriosisce discettando dei paradossi sul movimento, con Zenone di Elea che fissava l’attenzione su Achille all’inseguimento della tartaruga in una somma infinita di singole posizioni, regalando sorprendentemente la vittoria al placidissimo rettile di mare o di terra, così si prende il tempo di riflettere sul cambiamento, come modo d’essere proprio di tutto ciò che non sia assoluto e perfetto. Accanto allo sguardo della filosofia, ciò che dobbiamo apprendere, specialmente sulle forze in grado di cambiare l’essere umano in meglio o in peggio, la cultura greca e quella romana poi lo trasmettono specialmente nei loro miti di metamorfosi, spesso ispiratori di componimenti poetici di straordinaria bellezza. La ragion d’essere di tutte queste immaginarie vicende di trasformazione, spesso traumatica, è sostanzialmente eziologica, è insomma il tentativo di spiegare la causa e l’origine delle attuali forme che incontriamo nel mondo, scorgendovi un prima, un antefatto, come quando noi ci guardiamo allo specchio dopo una vita che ci ha lasciato rughe sul volto e calli alle mani.
Tra i molti, Ovidio è il narratore di metamorfosi più ammirevole. Il processo di mutazione che egli racconta di mito in mito può essere discendente o, ben più di rado, ascendente. La metamorfosi comporta cioè solitamente un processo di diminuzione rispetto all’umano: l’uomo può essere trasformato infatti in animale, pianta, acqua, pietra e in astro o costellazione. Più rara la trasformazione opposta, il passaggio ad esempio dalla pietra o dall’avorio alla condizione umana, come la nascita degli uomini e delle donne dalle pietre lanciate alle loro spalle da Deucalione e Pirra dopo il diluvio, o il caso dei denti del drago ucciso da Cadmo, seminati, che si trasformano in uomini armati, o ancora quello, commovente, della statua scolpita da Pigmalione e trasformata, per intercessione di Afrodite, in una donna in carne e ossa. Esistono dunque metamorfosi punitive e metamorfosi premianti.
Secondo la tipologia ovidiana le metamorfosi sono suddivise in animali, vegetali, liquide, minerali. La trasformazione di un essere umano in animale è il caso più frequente, anche guardando ad altri autori. Così nel poema babilonese di Gilgamesh, Ishtar muta il suo amante in uccello; nell’Odissea, Circe trasforma in porci diversi suoi ammiratori; nelle Metamorfosi di Apuleio, Lucio è trasformato in asino per punizione e restituito alla forma umana per opera di Iside. Petronio nelle sue Satire narra il caso di un soldato che si trasforma in lupo dopo aver indugiato tra le tombe in una notte di plenilunio, s’interna ululando in una selva e ne esce presso l’abitato per dilaniare le pecore: rincorso e ferito, la ferita si ritrova il giorno seguente sul corpo del soldato! Più rare sono le trasformazioni di esseri umani in piante, alberi o fiori: così avviene, ad esempio, del sangue di Attis mutato in violette o di quello di Adone in anemoni, come pure di Narciso trasformato in fiore elegantissimo, o di Dafne trasformata in alloro o di Siringa in canna palustre. Vi sono poi i mutamenti di uomini in pietra o in altre sostanze inanimate: il potere di pietrificare quel che guarda, ad esempio, è posseduto dagli occhi della gorgone Medusa. Non va da ultimo dimenticata la metamorfosi di uomini in stelle o costellazioni, il cosiddetto catasterismo. Gli eroi del mito e i personaggi della storia, divinizzati, vengono elevati alla loro morte nella forma di astri incastonati nel firmamento: così Perseo, Andromeda, Chirone, i Dioscuri e diversi animali la cui sorte mitologica conobbe analogo esito, come l’orsa, il cigno, il drago, l’idra, il leone, il toro, l’ariete.
Dall’antichità in avanti le metamorfosi divennero tema frequentato da diversi poeti, fonte di potenti suggestioni simboliche: basti pensare a Dante che nel XIII Canto dell’Inferno parla con Pier delle Vigne tramutato in albero nella Selva dei Suicidi come molti suoi sventurati compagni di pena eterna, o a Petrarca e ai riferimenti dafnei che caratterizzano i suoi componimenti per Laura nel Canzoniere. Potremmo continuare di seguito attraversando molta poesia italiana e arrivando fino a Gabriele D’Annunzio, Eugenio Montale, Mario Luzi.
Nemmeno in prosa la metamorfosi è assente. Da Lo strano caso del Dottor Jekill e Mister Hyde di Robert Louis Stevenson a La metamorfosi di Franz Kafka il tema della mutazione in una realtà inquietante e forse nascosta fino a quel momento dietro quiete apparenze non stenta a trovare spazio nella scrittura. Ma in questa dimensione fantastica della trasformazione – oltre a quella interiore, morale e spirituale, come il racconto del ribaltamento morale e spirituale dell’Innominato ne I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni –, esistono casi che riprendono le antiche invenzioni ovidiane in chiave meno inquietante, anzi, lietamente pedagogica. Già in una delle più famose fiabe italiane al mondo, pilastro della letteratura infantile, Le avventure di Pinocchio di Carlo Lorenzini alias Carlo Collodi, ci si imbatte in una semicomica metamorfosi del protagonista e di Lucignolo, decisi a non studiare e a perdere l’intera giornata in monellerie e giochi e tramutati giustamente in asini; l’intera fiaba, a ben guardare, è il racconto di un grande cambiamento da burattino in bambino, con una storia che – decifrata con chiave teologica come ha saputo recentemente e insuperabilmente fare il brillante cardinale Giacomo Biffi nel suo Contro Mastro Ciliegia – rammenta di passaggio in passaggio che la principale destinazione della vita è quella di giungere al supremo cambiamento, il superamento della nostra condizione umana, l’accesso alla vita di Dio e la risurrezione della nostra carne finalmente partecipe del destino dello spirito.
Si deve poi guardare a Italo Calvino, abile catalogatore di tante fiabe della tradizione orale italiana, per ricevere l’ennesima testimonianza di come proprio nel travagliato regno della fantasia, dove avvengono sovente metamorfosi prodigiose ed incantate, sia possibile ritrovare qualcosa di particolarmente attinente alla realtà: «E per questi due anni a poco a poco il mondo intorno a me
veniva atteggiandosi in quel clima, a quella logica, ogni fatto si prestava a essere interpretato e risolto in termini di metamorfosi e incantesimo: e le vite individuali, sottratte al solito discreto chiaroscuro degli stati d’animo, si vedevano rapite in amori fatati, o sconvolti da misteriose magie, sparizioni improvvise, trasformazioni mostruose, poste di fronte a scelte elementari di giusto e ingiusto, messe alla prova da percorsi irti d’ostacoli, verso felicità prigioniere d’un assedio di draghi; *…+ Ogni poco mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra. Ora che il libro è finito posso dire che questa non è stata un’allucinazione, una sorta di malattia professionale. È stata piuttosto una conferma di qualcosa che già sapevo in partenza, quel qualcosa cui prima accennavo, quell’unica convinzione mia che mi spingeva al viaggio tra le fiabe; ed è che io credo in questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita…» (Sulla fiaba, Giulio Einaudi editore, Torino 1988, p. 38-39).
Per restare ancora nel panorama della letteratura italiana, un racconto pieno di metamorfosi, Il segreto del Bosco Vecchio di Dino Buzzati, racconta una storia senza tempo, volta a mostrare l’enorme divario tra la mentalità infantile e quella senile, tra l’elasticità e la capacità di astrazione dei bambini e la cecità di chi è inaridito e invecchiato nella mente e nel cuore. Qui il lettore viene riportato nel luogo, il bosco, dove tutto può succedere, dove da sempre, nell’immaginario collettivo, si ambientano e si verificano metamorfosi, magie, misteri. Ecco quindi che, tra gli alberi frondosi e il sottobosco, Buzzati ambienta questa storia dove gli animali parlano con gli uomini, i venti hanno voci melodiose e proprie personalità, e gli alberi ospitano geni benigni, accogliendo svariate tipologie di metamorfosi. Non solo infatti gli stessi geni possono assumere le sembianze che desiderano, ma anche il bosco vero e proprio che, all’interno della narrazione, viene spesso personificato, in quanto rappresentante una collettività caratterizzata da comuni interessi e punti di vista e composta da geni, animali e alberi. Infine la trasformazione del protagonista, il disilluso e odioso Procolo, che diviene pagina dopo pagina sempre più pietoso e umano nel suo comportamento, fino a morire profondamente cambiato, da cinico colonnello a gran signore.
Seppur per poveri accenni, questo excursus sulla letteratura delle metamorfosi attesta quanto l’uomo sia travagliato dalla tensione tra bisogno e timore del cambiamento e quanto siano presenti alla sua coscienza le forze in grado di mutarci nel profondo: convinzioni, passioni, esperienze, ripensamenti, forze luminose e forze oscure. Se la fisica del mondo materiale riconduce tutte le potenze che plasmano il visibile a quattro interazioni fondamentali, tra loro apparentate – gravitazionale, elettromagnetica, forte e debole –, la frequentazione delle biografie reali o immaginarie delle persone, storiche o mitiche che esse siano, indica un parallelo sistema di quattro forze che in ultima analisi sono effetto e causa di ogni cambiamento nella vita umana: lo scorrere del tempo, le nostre scelte, la grazia e il peccato.

OLTRE LE VICENDE DEL SINGOLO: LA TRASFORMAZIONE DEL MONDO E LE RIVOLUZIONI STORICHE

Uno sguardo importante, in questa mostra di Illegio, sul cambiamento come costante che accompagna l’avventura umana nel mondo considera i frequenti rivolgimenti storici che hanno attuato o tentato di attuare radicali mutamenti dell’ordine sociale, delle dinamiche di potere e di governo, di produzione e di distribuzione della ricchezza, che indichiamo in sintesi con le categorie di riforme o di rivoluzioni, mentre i loro ispiratori e condottieri con quelle di innovatori o di ribelli. «Che cos’è l’uomo?», si chiedeva Albert Camus; «è questa forza che finisce sempre per scuotere i tiranni e gli dei» [Lettere a un amico tedesco, in Opere. Romanzi, racconti, saggi, Bompiani, Milano 2000, p. 353]. Secondo la visione di Camus, l’uomo è, nella sua indole, un essere in rivolta, la sola creatura che possa rifiutare di vivere nelle condizioni in cui si trova o addirittura di essere ciò che è.
Quando l’uomo rivolge lo sguardo al di là della sua limitata esperienza individuale prende coscienza dell’universalità della condizione umana, segnata frequentemente dall’ingiustizia e dal dolore, ma intuisce al tempo stesso l’universalità del valore di ogni essere umano. Una tale solidarietà metafisica anima tante trasformazioni sociali e politiche: è in nome di ogni uomo che lo schiavo insorge quando ritiene che un determinato ordine consolidato (magari imposto con la bugia e con il suo correlativo
necessario, la violenza) neghi una parte della giustizia dovuta a tutti gli esseri umani. È questa consapevolezza che costituisce il fondamento etico dei processi di riforma o delle vere e proprie rivolte, ribellioni e rivoluzioni che sul piano storico, sociale, economico, politico, l’uomo mette in atto.
Tuttavia, la storia reale delle ribellioni e delle rivoluzioni, onestamente osservata, è anche la storia a luci e ombre dell’intreccio di ispirazioni nobili e di errori madornali, di passioni solidaristiche per la giustizia e di torbidi interessi e ignobili istinti di prevaricazione o di vendetta, è impulso per il rovesciamento delle oppressioni ma anche continua delusione per l’instaurarsi di nuove oppressioni che sostituiscono le precedenti. Spesso, se non sempre, le rivolte umane puntano a rimediare a un sistema oppressivo ma finiscono in effetti per combatterlo sulla base di una visione distorta e sfalsata della condizione umana o dell’economia e della politica, generando così sistemi non meno viziati di quelli biasimati e aggrediti. Osservando La Libertà che guida il popolo, di Eugène Delacroix (che al Louvre è considerata un monumento nazionale, inamovibile, ma che in mostra a Illegio si può ammirare, a grandezza naturale, perché dipinta una seconda volta da un giovane pittore francese, Leroy Dionet), si coglie già in quel quadro la riflessione critica sull’avvento di cambiamenti sociopolitici che hanno piantato il vessillo di alti principi sopra un cumulo di cadaveri. La figura della libertà è tutt’altro che la composta donna idealizzata da diversi artisti del medesimo tempo; fra tutti basti pensare a Frédéric-Auguste Bartholdi con la sua monumentale statua divenuta il simbolo di New York e dell’America intera: La libertà che illumina il mondo. Se in quel caso si ammira la figura dal capo raggiante, statua classica e nuovo colosso del mondo moderno, che innalza la fiaccola illuministica della razionalità e tiene in mano le tavole della legge, nel dipinto parigino la trascinatrice di ragazzini armati e di affamati combattenti che paralizzano la città con le barricate è una scalmanata discinta che innalza un vessillo e impugna una baionetta, incurante di quanti sta calpestando. Una tale raffigurazione non riflette soltanto lo spirito di quel dandy che ra Delacroix, assolutamente perplesso sulle continue instabilità della società e dei regimi di Francia da lui conosciuti nell’arco della sua vita: è l’affioramento di un precocissimo e necessario sguardo critico sulla concezione del progresso tipica della società moderna. Innanzitutto sembra porre la domanda: che cos’è veramente quel cambiamento della storia e dei suoi meccanismi di ingiustizia che definiamo con la parola progresso? Nel XX secolo, Theodor W. Adorno ha sottolineato in modo drastico la problematicità della fede nel progresso: il progresso, visto da vicino, appare in realtà il percorso dalla fionda alla bomba atomica; siamo certi che meriti quel nome?
Ora, questo è, di fatto, un lato del progresso che non si può nascondere: l’ambiguità del progresso è innegabile. Senza dubbio, esso cerca nuove possibilità per il bene e per la giustizia, ma apre anche a nuove possibilità di male. E la ragione di fondo non sta tanto nei possibili errori di prospettiva, nelle teorie che ispirano i rivoluzionari di un tipo o dell’altro, quanto nell’ambiguità del cuore umano stesso, in cui coabitano virtù e vizi, ispirazioni nobili e calcoli meschini, capacità di fare cose meravigliose e al tempo stesso capacità di abbuttirsi bestialmente. Se non vi è una soluzione al dramma della impurità del cuore umano, tutti i cambiamenti e le rivoluzioni che l’uomo metterà in atto saranno fatalmente segnate dall’impurità del loro autore, mescolando successi del bene e della ragione con crimini, anche di massa, e con imposizioni di norme e di sistemi aberranti e proposti con la persuasione che siano conquiste. La storia del XX secolo dimostra tutto ciò in un modo che supera in evidenza l’intero corso della storia mondiale precedente; sono dell’opinione che la direzione in cui si stanno evolvendo gli ordinamenti giuridici dei paesi occidentali in questo XXI secolo manifesti ancora una volta la tendenza a mescolare elementi di emancipazione autentica da ingiustizie secolati con elementi di regressione sorprendente a concezioni tipiche del tempo in cui cadde l’Impero romano, fondate sulla deleteria convergenza culturale di scetticismo, relativismo e individualismo. Ma su tale punto non continuo oltre in questa sede.
Peraltro, la storia dimostra che assolutamente ci sono ribellioni e rivoluzioni doverose, quando di fronte alla menzogna e alla violenza ogni silenzio o ambiguità sarebbero un’inaccettabile connivenza con il crimine. «Non in mio nome», afferma il ribelle resistendo alla tirannia, quand’anche dovesse soccombere.
Senza poter qui approfondire molto la discussione sul punto, rimane rilevante cogliere come la cultura occidentale sia stata predisposta dall’esperienza religiosa giudaico-cristiana a guardare alla storia e al mondo come all’ambito del cambiamento. Non è di poco conto, a tal proposito, osservare come la
costruzione della cultura d’Occidente debba moltissimo all’ebraismo e al cristianesimo, mentre le altre prospettive religiose sulla realtà che circolano nella storia umana antica o presente, oppure nessuna prospettiva religiosa sulla realtà, avrebbero influito negativamente sull’attitudine dell’uomo occidentale ad operare per la giustizia, per la pace, per il riscatto degli oppressi, per il riconoscimento della dignità del lavoro e dei lavoratori. Nelle civiltà della terra, infatti, ci si imbatte frequentemente nella visione statica del mondo, orientata alla conservazione del sistema e del suo ordine costituito – un ordine del quale si cerca il fondamento e la garanzia nella trascendenza –: rappresentazioni della realtà così concepite sono particolarmente affini alle culture emerse dall’Oriente del mondo, e forse la più nitida di esse si trova nell’antico universalismo cinese, dove l’ordine del cielo, eternamente uguale, è la causa e il modello delle strutture e dell’agire in terra. È il tao, la legge irreformabile di un universo che gli uomini devono riconoscere e ossequiare. Il tao è legge cosmica e morale al tempo stesso, fondamento dell’armonia fisica e di conseguenza principio della vita politica e sociale. Cambiamenti, riforme e rivoluzioni, disordine, turbamento della pace, caos sono ribellioni o resistenze dell’uomo contro il tao, osate per ignoranza o per crimine, le cui ferite vanno riparate restaurando il sistema originario. Qualcosa di analogo è espresso nel concetto indiano del dharma, che significa ordine tanto cosmico quanto etico e sociale, al quale l’uomo deve adeguarsi, perché la vita si sviluppi armonicamente. Il Buddhismo ha offerto una via d’uscita da questa visione cosmica, politica e religiosa, spiegando tutto il reale come un ciclo di sofferenze e la salvezza non come un cambiamento che possa incidere anche sulla vita sociale o che possa realizzarsi in qualche modo nel cosmo ma come un uscire dalla vita e dal cosmo. Così facendo, esso non ha generato alcuna nuova visione politica, storica, sociale, né ha dato particolare impulso alla ricerca scientifica o all’intervento tecnologico sul mondo – se non, nel nostro tempo, per assimilazione di modelli nati in Occidente e applicati in casa propria –.
Dall’altra parte, e del tutto diversamente, sta invece l’esperienza giudaico-cristiana con le vicende chiave dell’esodo e della risurrezione di Cristo crocifisso. Anche la fede di Israele, in realtà, partendo dall’alleanza dell’esodo rilegge all’indietro la creazione stessa come ordine stabilito da Dio e la successiva alleanza, stretta da Dio con Noè, come la garanzia di un certo ordine cosmico e della sua stabilità; ma la fede dello stesso Israele, per aver vissuto la liberazione dalla schiavitù d’Egitto e per aver conosciuto Dio come Presenza che scende nella storia per riscattare i suoi poveri, sviluppa un deciso orientamento verso il futuro e una appassionata attitudine alla contestazione dell’ordine oppressivo prestabilito. Nell’esperienza biblica, la fede non genera una visione del mondo all’insegna della conservazione del sistema e di uno stato di cose immutabile, genera al contrario una visione del mondo e della storia all’insegna del cambiamento e dello sviluppo, portatrice di un “principio rivoluzionario”. Ha conseguenze gigantesche l’annuncio di un Dio che entra nella storia scandalizzato dal grido degli oppressi e risoluto a riscattarli, scegliendosi tra tutti i popoli la stirpe di Israele precisamente perché sia un segno piantato in mezzo al mondo, un segno di Dio che ha a cuore la sorte degli esseri umani e vuole la liberazione degli schiavi, non i lavori forzati e il consolidamento delle caste e dei faraoni che vengono sostenuti da religioni organiche al potere. Così la potenza del divino non è solo riverberata dall’architettura del cosmo, ma appare come potenza di un Dio che agisce nella vita. Purificata da ogni fraintendimento e da ogni riduzione legalistica dell’alleanza, la fede biblica trova definitivo fondamento in Cristo morto e risorto e nell’attesa del suo ritorno al compimento della storia. Il culmine dell’annuncio biblico, socialmente destabilizzante per tutte le oligarchie di ogni tempo e di ogni assetto, è proprio l’identificazione di Dio con il giudeo crocifisso venuto da Nazaret, che sta agli antipodi del sinedrio locale ben accordato con il potere e che è quanto di più distante si possa immaginare rispetto a Tiberio, crapulone imperatore accomodatosi a Capri e sommo pontefice del culto pubblico. La fede in quel Gesù spazzato via dai sistemi oppressivi del suo tempo e sorprendentemente risuscitato e rivelatosi come Dio in persona fonda, nel cristianesimo, un impegno nel mondo e un disincanto dal mondo che connota numerosi sviluppi innescati dalla diffusione del Vangelo. Dall’abolizione della schiavitù alla promozione della donna, dalle opere di carità e di previdenza sociale alle battaglie per la giustizia e la pace, dall’impulso dato alle scienze a quello impresso alle arti, l’Occidente ha vissuto e vive tutt’ora di una apertura verso il futuro e verso quei progressi non identificabili nel mantenimento di un ordine costituito a vantaggio di pochi, apertura impensabile senza le radici cristiane della sua stessa civiltà.
La storia, certo, dimostra anche che le ribellioni e le rivoluzioni, per quanto doverose e orientate a un obiettivo corretto, non bastano a dare luogo alla nuova società pienamente giusta, né basteranno mai: l’uomo come tale ricomincia da capo in ogni essere umano, perciò non può esistere la società definitivamente nuova e giusta, nella quale hanno sperato le grandi ideologie e le grandi promesse politiche di ogni tempo, poiché l’uomo rimane sempre libero e ricomincia ad ogni generazione, pertanto si dovrà sempre di nuovo operare per la giustizia che non può essere conquistata una volta per tutte e che continuamente potrebbe essere compromessa da nuovi misfatti. Né sarebbe possibile trascurare, infine, tutte le vittime innocenti cadute combattendo per amore di una giustizia terrena senza averla potuta vedere realizzata: gli eredi potranno onorare vittime così nobili e illustri, ma la giustizia totale esige, a rigor di logica, la vita eterna e l’esistenza di un Dio giusto e sensibile alla causa degli innocenti, altrimenti per quelle vittime non ci sarebbero che postumi monumenti – e, se fossero vittime giovani, per le loro madri o le loro spose o i loro figli non basterebbero nemmeno i più grandiosi monumenti ad asciugar le lacrime –.

LA PROSPETTIVA COSMICA

Un terreno di analisi privilegiato per meditare il concetto di cambiamento è l’ambito della biologia, partendo innanzitutto dall’osservazione del metabolismo degli organismi viventi. Studiando il metabolismo degli organismi viventi emerge chiara una certa destinazione dei processi dinamici della natura a un fine stabile, “identitario”, si intravvede cioè il primato della forma sulla materia. Il metabolismo è infatti un processo attraverso cui si assume, si trasforma e si espelle materia per mantenere in vita la forma stabile dell’organismo principale: si tratta esattamente di un processo dinamico che comporta vari cambiamenti allo scopo di garantire un non-cambiamento di fondo. L’organismo vivente è dunque auto-telico, è vivente in quanto è orientato dal fine di realizzare se stesso continuamente, in una condizione di relativa stabilità della propria realtà. Per questo, accanto al processo metabolico si affianca anche l’azione del sistema immunitario: l’organismo si mantiene nel rapporto con l’altro da sé anche difendendosi dall’aggressione di ciò che è alieno e lo potrebbe destabilizzare. Non ogni cambiamento è infatti conveniente al fine di realizzare la pienezza della propria realtà e la vita si regge precisamente sul discernimento tra ciò che le è propizio e ciò che la ingannerebbe.
Tra i fenomeni biologici di cambiamento più interessanti da osservare vi sono le metamorfosi dei viventi, in particolare degli insetti, di alcuni pesci, degli anfibi e di molti invertebrati, che dallo stadio larvale conducono allo stadio adulto. L’esempio sicuramente più immediato è la trasformazione del bruco in farfalla. Nel passaggio dalla goffa forma larvale alla leggiadra e variopinta forma adulta a cambiare non è solamente l’aspetto fisico ma la vita dell’insetto stesso. Le cellule che compongono il bruco si riorganizzano radicalmente e la creatura che emerge dalla crisalide è completamente rinnovata. Un nuovo aspetto, nuovi organi, nuove abilità, nuove abitudini alimentari ed un nuovo fine nella vita. Il bruco e la farfalla sembrano non avere quasi nulla in comune, ma è esattamente qui che risiede la meraviglia del cambiamento: il bruco e la farfalla sono infatti in tutto e per tutto lo stesso individuo.
La metamorfosi del bruco non è l’unico esempio di un così vistoso fenomeno. Animali più complessi rispetto agli insetti sono infatti in grado di mutare la propria forma nel corso della vita. È il caso, ad esempio, di echinodermi come i ricci di mare o di anfibi come le rane. Proprio la trasformazione del girino in una rana adulta sembra portare la metamorfosi ad un altro livello, che merita d’essere considerato. Mentre il bruco, infatti, subisce la metamorfosi nel momento in cui il suo corpo interrompe la produzione di un ormone che lo manteneva allo stadio larvale, il girino in un qualche modo gestisce direttamente la propria metamorfosi, attivandone il processo in base agli stimoli che provengono dall’ambiente. Il girino riesce ad interpretare segnali dal mondo esterno (quali la temperatura, la profondità dell’acqua, il livello di predazione subito dai suoi fratelli…) e a regolarsi di conseguenza. Se un predatore inizia a decimare la popolazione di girini, i superstiti “capiscono” che è meglio cambiare aria e attivano anzitempo la metamorfosi verso lo stadio di rana adulta in grado di rifugiarsi all’asciutto. Se lo stagno è tranquillo e l’acqua è profonda e ricca di cibo, invece, il girino può
rimandare la metamorfosi ed impegnarsi ad aumentare le proprie dimensioni per diventare così una rana più grande in futuro. Studiando nei secoli queste mutazioni, l’uomo avverte progressivamente la necessità di parole che abbraccino in modo appropriato la medesima realtà nei vari stadi della sua trasformazione, per cui ad esempio sarà più appropriato usare il termine batrace per abbracciare l’evoluzione da girino a rana o il riferimento alla categoria di persona umana per abbracciare l’evoluzione dal concepito all’adulto.
Con le figure di Federico Cesi e di Giordano Bruno, si propone agli albori della modernità l’idea di una grande scala dei viventi e della non facile questione della loro classificazione. Così, diventa sempre più centrale la questione dei criteri di identificazione precisa delle specie, con la necessità di stabilire una tassonomia fra tali entità. Il passaggio da Carl Nilsson Linnaeus a Charles Darwin, su questo punto, è il passaggio verso una concezione della natura ove il tema dell’evoluzione e quindi della metamorfosi si fa pervasivo, al punto da rendere problematica la questione stessa dell’identificazione delle specie nel tempo.
Quando Charles Darwin, alla metà del secolo XIX, sviluppò l’idea dell’evoluzione di ogni essere vivente e pose così in discussione, alla sua stessa base, la concezione tradizionale della persistenza statica delle forme create da Dio, ebbe inizio una rivoluzione della visione del mondo analoga, per portata, a quella copernicana. L’uomo si percepisce all’improvviso come un essere formatosi attraverso un lungo processo di mutamenti, svaniscono le grandi costanti derivate impropriamente da una interpretazione letterale della pagina biblica, la comprensione di base del reale cambia: il divenire prende il posto dell’essere, l’evoluzione è il punto di vista dal quale osservare e comprendere il mondo visibile, l’ascesa verso una condizione più raffinata mette in ombra l’idea della caduta da una grazia originale.
Il mutamento di prospettiva ha ripercussioni a diversi livelli ed è necessario distinguerli. In primo luogo un aspetto molto rilevante è che l’idea della persistenza delle forme – idea dominante prima di Darwin – era legittimata proprio a partire da un concetto di creazione che guardava ad ogni singola forma come ad un prodotto diretto e immediato dell’attività creatrice di Dio: è evidente che tale modo di concepire la creazione contraddirebbe il concetto di evoluzione. Ma se si considera l’idea di evoluzione – l’idea cioè di un grandioso e complesso processo di cambiamento come causa prossima di ciò che oggi vediamo nel cosmo –, grazie a questa categoria è possibile giungere ad un chiarimento, ad una precisazione del concetto di creazione. La fede nella creazione conosce la causa dell’esistenza della differenza tra le diverse realtà e la causa dell’esistenza dell’intera realtà in quanto tale: la prima domanda cui la fede risponde è come mai esista qualcosa e non piuttosto il nulla, la seconda domanda è se l’uomo abbia in tutto questo scenario un senso specifico e un destino specifico oppure abbia la stessa sorte che in apparenza hanno le altre entità materiali del mondo. Come tale, l’idea di creazione non è quindi in contrasto con quella di evoluzione, anzi, la visione evolutiva della storia cosmica o delle specie viventi si preoccupa di un’altra questione, vale a dire del perché esistano queste determinate realtà e non altre, da dove esse abbiano ottenuto la propria configurazione e in quale relazione stiano con le altre configurazioni nello spazio e nel tempo. La creazione riguarda insomma la differenza tra nulla e qualcosa, mentre l’evoluzione riguarda la differenza tra qualcosa e qualcos’altro.
Volgendo lo sguardo all’insieme dell’evoluzione, l’indagine sulla struttura e sulla storia del cosmo ricostruisce di fatto la storia di un gigantesco, intricato e sorprendente processo di cambiamento che ha leggi razionalmente individuabile e si comporta come se perseguisse un fine ben preciso. Le origini del mondo che vediamo ci sono abbastanza chiare, seppur non del tutto a causa di tre buchi importanti nella ricostruzione della storia del cambiamento cosmico dal principio ad oggi. Le nostre attuali teorie fisiche non sanno infatti dirci che cosa sia accaduto al momento preciso del cosiddetto Big Bang, e non abbiamo spiegazioni né della materia oscura né dell’energia oscura, che pure sappiamo esistere. Abbiamo modelli convincenti per la cosmologia del Big Bang e la fisica delle particelle, ma al momento non c’è alcun modello sufficientemente chiaro per giustificare l’origine della vita. E la stessa comparsa della coscienza rimane scientificamente un mistero. Non si tratta, insomma, di piccole lacune nella narrazione complessiva, che per giungere ad una ricostruzione plausibile delle origini del mondo, passo dopo passo, deve ricorrere a quasi tutte le diramazioni della scienza contemporanea: cosmologia, fisica delle particelle, astrofisica, geologia, geofisica e geochimica, chimica della vita, genetica e sintesi proteica, evoluzione, paleontologia e paleoantropologia, evoluzione umana e neuroscienze. Un fatto appare comunque chiaro, seppur tra i
vari punti oscuri del racconto: l’universo è un sistema in continuo cambiamento, fin dal primo istante della sua esistenza, e l’approdo di questo cammino di cambiamento è l’apertura alla conoscenza e all’amore e all’infinito che l’uomo porta in sé. La differenziazione di tutto ciò che esiste e il cammino del mondo fisico verso una forma di vita personale, dotata di ragione, di capacità di amare e di libertà di scelta, non si spiega adeguatamente a partire dal caso e dalla necessità – come sosteneva insostenibilmente Jacques Monod – e l’intero processo, come pure la nostra peculiare travagliata e splendida condizione, non avrebbero ragione sufficiente, o meglio non avrebbero affatto ragione, se il cosmo fosse senza uno scopo intelligentemente pensato da Dio. In ultima analisi, dal punto di vista razionale, la visione evolutiva rafforza l’intuizione della creazione, a dispetto di quanti pensano che la contrasti.
Certamente, il passaggio alla visione evolutiva del mondo rappresenta l’avvio verso una nuova forma di pensiero, che connota profondamente l’intera cultura occidentale e che pone sotto il segno del cambiamento l’intera realtà. Non soltanto, infatti, il quadro cosmico viene ricompreso all’interno di una narrazione di tipo evoluzionistico, e analogamente, seppur con molti punti ancora oscuri, così avviene anche per il quadro delle specie viventi fino all’uomo, ma in modo più generale l’uomo contemporaneo considera tutte le esperienze dal punto di vista della storia del loro cambiamento, giudicando la loro attuale forma come frutto di un cammino evolutivo e come premessa di una possibile continuazione nel cammino evolutivo stesso: ciò vale per le forme storiche di organizzazione politica – gli Stati, le democrazie, le costituzioni… – come per la moda, per le forme della preghiera liturgica come per i convincimenti dottrinali di una religione, per le consuetudini internazionali come per i concetti più elementari delle culture, ad esempio il concetto di famiglia. Ma l’innegabile constatazione che dietro a molte forme e a molte conquiste della civiltà vi sia un lungo e paziente, a volte tormentato, cammino, non toglie altrettanto innegabilmente che alcune di queste forme non siano semplicemente la moda di un momento, uno dei capitoli del provvisorio, insomma, ma appunto delle conquiste di civiltà tali da costituire un punto fermo nella storia della coscienza umana collettiva. Alcune forme e alcuni concetti, insomma, richiedono approfondimento, non ridiscussione. In tal senso, l’estensione indiscriminata del paradigma evolutivo, che condiziona globalmente il pensiero contemporaneo, è spesso una indebita estensione di una idea imprecisa di evoluzione. Un conto è, infatti, che l’evoluzione venga intesa come un progresso verso forme sempre più “giuste” raggiunte attraverso la critica e il superamento degli stadi precedenti, altro è che l’evoluzione sia l’affioramento e la rivelazione progressiva di una logica, di una razionalità che si fa strada nella storia grazie a slanci e conquiste e nonostante ostacoli e deviazioni.

IL CAMBIAMENTO DEFINITIVO

Posiamo infine lo sguardo proprio sul caso dell’uomo, approdo di questo cammino cosmico di cambiamento. Il nostro organismo, soprattutto nel corso dello sviluppo dal concepimento alla nascita, va incontro ad una serie di profondi cambiamenti morfologici e funzionali, ma nessuno di essi è così radicale da potersi considerare la metamorfosi decisiva della nostra vita. Nell’uomo la metamorfosi va intesa ad un livello ultra-fisico e riguarda anzitutto le facoltà peculiari dell’uomo stesso, quelle per cui la specie homo cui apparteniamo è stata connotata dall’aggettivo molto qualificativo sapiens: ci connotano in modo determinante la ragione, la libertà, la sensibilità, il cuore, lo spirito, con le rispettive ricerche della verità, del bene, della bellezza, dell’unità e di Dio. Con la tensione verso questi trascendentali l’uomo cambia se stesso divenendo compiutamente umano, portando a compimento il processo dell’ominazione che ha come suo obiettivo supremo non l’ennesima serie di mutazioni morfologiche, genetiche, fisiche, ma l’introduzione o meglio il salto dell’ordine materiale nell’ordine spirituale della realtà.
Proprio così mutando e maturando, l’uomo muta il mondo che lo circonda, attuando quel mandato che nel libro della Genesi egli riceve dal suo Creatore e che consiste nel prendere parte alla signoria divina, nel dilatare progressivamente il recinto dell’Eden sino a fare dell’intero creato un giardino in cui Dio passeggia in amicizia con l’essere che ha destinato a prender parte alla propria gloria. La risurrezione di Cristo, in questo cosmico cammino, costituisce – se possiamo usare il linguaggio della
teoria dell’evoluzione – la più grande “mutazione”, il salto assolutamente più decisivo verso una dimensione totalmente nuova, che nella lunga storia del cosmo e della vita e dei suoi sviluppi mai si sia avuta: un salto in un ordine completamente nuovo. È decisivo, affinché un tale salto potesse compiersi, che quest’uomo Gesù non fosse solamente un uomo e che non fosse un io chiuso in se stesso. Se egli è una cosa sola con il Dio vivente, talmente unito a Lui da formare con Lui un’unica realtà, non solo simbolicamente, rappresentativamente, psicologicamente ed emotivamente, ma ontologicamente, allora il cammino dell’evoluzione cosmica e antropica giunge in lui al suo traguardo. In lui lo sguardo della fede riconosce presente la vita intramontabile e sa che la sua carne fisica e mortale, attraversando sul Calvario lo stretto sentiero dell’amore perfetto, prende parte a quella vita indistruttibile, sbocciando nuovamente oltre la morte stessa nella suprema metamorfosi della risurrezione. La risurrezione appare di conseguenza come l’esplosione della luce, l’esplosione dell’amore che sciolse il sortilegio fino ad allora invincibile del “divieni e muori”, un evento che inaugurò una nuova forma della vita, quella definitiva, alla quale sono accessibili la gloria eterna e la pienezza beata e nella quale è stata integrata anche la materia, assunta – per usare il vocabolo specifico del linguaggio teologico cattollico –. È il salto decisivo di qualità nella storia dell’evoluzione, è il punto da cui ha inizio la rivoluzione vera e insuperabile di tutto ciò che esiste, attraverso Cristo che già penetra in questo nostro mondo e attira a sé tutte le cose. Chi al sapere scientifico aggiunge lo sguardo della fede cattolica intravvede all’orizzonte la risurrezione finale della carne, cioè la propagazione totale e il disvelamento pieno dell’universale vittoria della vita e dei legami ottenuta da Cristo, in vista della quale tutto il cosmo si è mosso fin dal primo istante come verso il grande attrattore del cammino evolutivo, “convinto” che nonostante la minaccia del nulla lo sforzo della vita non sarebbe stato vano.

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