Pesci, anfibi e crostacei rari del Fvg minacciati dalla siccità e dal cambiamento climatico

Biodiversità al tramonto a Nord Est. L’allarme sulla biodiversità lanciato da un gruppo di 12 naturalisti della regione
Daniele Micheluz
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Il presente report è stato curato da Nicola Bressi, Stefano Pecorella, Renato Pontarini, Tiziano Fiorenza, Matteo De Luca, Michele Tofful, Paolo Utmar, Marco Zin, Luca Pontel, Roberto Battistin, Marco Luca e Luca De Ronch

L’estate del 2022 è stata l’estate più siccitosa mai conosciuta dagli ambienti naturali del Friuli Venezia Giulia.

La siccità estiva non è solo quanto piove in estate, ma anche quanto ha piovuto in inverno e in primavera. Siccità è anche quanto ha nevicato e quanto velocemente si scioglie la neve. Infatti, se in montagna a primavera fa già caldo in estate non ci sarà più acqua di scioglimento che scende a valle.

Siccità non è solo quanto piove, ma come piove. Cento millimetri distribuiti in varie piogge nel corso di un mese sono abbastanza. Cento millimetri concentrati in un solo forte temporale servono a poco, poiché il terreno non riesce ad assorbire l’acqua.

Siccità infine è anche quanto fa caldo e quanto fa vento. Più fa caldo e più vi sono giornate ventose, più il terreno, le piante e gli animali si disidratano. E quest’anno, oltre alle scarse piogge concentrate in pochi giorni, ha fatto molto caldo e sono aumentate le giornate ventose estive.

Queste anomalie sono la diretta conseguenza del nostro inquinamento climatico, un fatto ormai ampiamente dimostrato e accettato dalla scienza che non ci dilungheremo quindi a spiegare ai pochi scettici restanti.

Ciò che, come naturalisti, abbiamo osservato nelle zone umide e negli ambienti fluviali del Friuli Venezia Giulia in questa infausta estate 2022 può essere considerato un vero e proprio disastro ecologico. Con poche eccezioni, dal Tarvisiano al Carso, dai Magredi alla Bassa Friulana le zone umide di acqua dolce e i loro abitanti sono stati colpiti pesantemente, come mai prima d’ora.

Vale la pena ricordare che le zone umide, pur rappresentando solo l’1% degli ambienti terrestri ospitano e rifocillano il 30% della biodiversità e delle creature viventi. Creature viventi che nel migliore dei casi non hanno potuto riprodursi a causa dell’assenza di acqua e nel peggiore sono sparite, in alcuni casi per sempre.

Se infatti nel fiume Isonzo ci si è adoperati per salvare almeno una parte dei pesci, in molti torrenti, canali, rogge e stagni (erroneamente considerati ambienti minori ma che lo sono solo per dimensioni, non per importanza ecologica) quasi nulla è stato salvato. Tuttavia, è proprio in stagni, torrenti minori e ruscelli non intaccati dalle immissioni di pesci alieni, da captazioni idriche e da frequentazioni turistiche che risiede lo scrigno della biodiversità delle zone umide regionali.

Nel Tarvisiano si sono prosciugati una parte dei pochi corsi d’acqua italiani che ancora ospitavano il rarissimo gambero di torrente, e la metà dei soli due stagni italiani in cui è (era?) presente la raganella centroeuropea. Il nostro unico castoro (il celebre “Ponta”) ha dovuto mestamente sloggiare e cambiare zona perché il bacino creato grazie alla sua diga non ha ricevuto più acqua, e così anche le lontre. Nella Bassa Friulana si sono asciugate alcune delle rare rogge dove sopravvivevano residue popolazioni isolate di gambero di fiume, probabilmente perdute per sempre. Nei tratti che si sono asciugati già a luglio sono andate perdute le nidiate tardive di rallidi e anatidi. Triste pensare che questo territorio era un tempo caratterizzato proprio dalla ricchezza di acque di risorgiva, progressivamente esaurite dalle bonifiche, dall’emungimento dovuto all’agricoltura intensiva e dall’assenza di ricarica invernale.

Anche per le comunità di anfibi questa è stata un’annata disastrosa. Molte specie a riproduzione precoce hanno trovato pozze e stagni asciutti già a fine inverno. Altre hanno provato a riprodursi ma i siti di deposizione si sono asciugati prima che i girini avessero compiuto la metamorfosi. A titolo di esempio, sul Carso il rospo bruno (è insensato continuare a chiamarlo “rospo comune” come vorrebbe la nomenclatura) è riuscito a riprodursi solamente in quattro stagni sugli abituali venti o trenta. Situazione analoga in molte zone della montagna, dove mai noi naturalisti avremmo pensato di non dover più rammaricarci per la strage di rospi sulle strade attorno ai laghi, perché anche dove i laghi ci sono ancora, non ci sono più i rospi.

Si sono prosciugati torrenti, rogge, risorgive e sorgenti di cui non si ha ricordo di prosciugamenti a memoria d’uomo, come ad esempio le sorgenti che alimentano Sauris di Sopra, il corso dell’Isonzo a monte di Sagrado, la roggia Acronica ad Aiello del Friuli o la Torbiera di Lazzacco, quest’ultimo unico sito di presenza della damigella pigmea (una rarissima libellula) a sud delle Alpi.

Laddove gli animali e le piante che popolavano tali ambienti non siano riusciti a sopravvivere (nel caso di pesci e crostacei è certo, possiamo avere speranze per anfibi, piante ed invertebrati) la loro estinzione locale è da considerarsi definitiva, poiché nella maggior parte dei casi non vi sono popolazioni limitrofe che possano ricolonizzare queste porzioni di areale. E anche qualora alcuni individui siano sopravvissuti, il numero ridotto può facilmente portare a un cosiddetto “collo di bottiglia”, cioè una ridotta variabilità genetica che non consente più un sufficiente successo riproduttivo.

Abbiamo perduto una fetta della nostra biodiversità, nei prossimi anni avremo un’idea di quanto grande e con quali conseguenze. Di certo l’effetto non rimarrà isolato alle zone umide, perché le specie che vi abitano sono anelli fondamentali delle catene alimentari di boschi e campagne. Basti pensare a quanti insetti (come, ad esempio, le cimici marmorate) vengono mangiati da ranocchi e libellule, e quanti animali (dalle cicogne ai falchi) si nutrano proprio di ranocchi e libellule.

È giusto sottolineare che per alcuni gruppi di uccelli questa è stata un’annata fortunata. Aironi e altri uccelli ittiofagi hanno banchettato attorno alle pozze in via di prosciugamento dove pesci e anfibi non avevano vie di fuga, mentre alcuni uccelli coloniali nidificanti a terra hanno beneficiato del lungo periodo di bel tempo e dell’assenza di inondazioni e mareggiate che sommergono i loro nidi. E così specie rare e minacciate come il fratino ed il fraticello hanno avuto un buon successo riproduttivo.

Un’annata propizia ha un effetto positivo sulla consistenza delle popolazioni di questi uccelli, ma bisogna andare oltre e domandarsi cosa potrebbe accadere nei prossimi anni. Ad esempio, quanto cibo troveranno negli stessi ambienti? E quanto dureranno habitat come isolotti e barene, a rischio di venire sommersi o erosi per effetto dell’innalzamento dei mari? Le risposte non sono così scontate.

Parallelamente bisogna sottolineare come annate simili vadano ad aggravare la già critica situazione dei canneti di foce a Marano lagunare, dove si stanno perdendo varie specie di passeriformi di canneto come il basettino, il migliarino di palude e la salciaiola. Lo scarso apporto dei fiumi di risorgiva che sfociano in laguna comporta infatti un’estesa “marinizzazione” della stessa, con la progressiva scomparsa dei canneti e delle specie che li abitano.

Per le oche selvatiche nidificanti all’Isola della Cona il precoce prosciugamento delle paludi ripristinate ha invece aumentato la predazione dei loro piccoli da parte della volpe, poiché in assenza di acqua fonda i giovani non ancora in grado di volare sono più vulnerabili ai predatori terrestri.

La siccità ha avuto conseguenze negative anche dove l’acqua è rimasta: le temperature più alte fanno diminuire l’ossigenazione e aumentano gli effetti delle sostanze inquinanti, compromettendo la sopravvivenza di specie legate ad acque limpide e fresche, come il già citato gambero di torrente, la trota marmorata, i plecotteri o la salamandra pezzata. Quindi anche dove l’acqua è rimasta, non sempre è rimasta vita. Oltretutto temporali forti e rapidi formano pozze effimere che divengono focolai per le larve delle zanzare, che in pochi giorni compiono il ciclo; per la felicità anche del Virus del Nilo.

Effetti a catena si sono già notati pure al di fuori delle zone umide: i terreni secchi hanno reso impossibile la ricerca degli insetti (la cui drastica diminuzione è anch’essa un documentato e tragico fenomeno globale), indebolendo alla base le catene alimentari. Sono ben pochi, ad esempio, i giovani merli che si osservano in quest’anno nefasto, che detiene anche il record negativo di osservazioni di animali che nel nostro immaginario consideriamo amanti del caldo: i serpenti. Soprattutto le specie di rettili più rare e protette (come il saettone, la coronella, il serpente gatto) hanno ridotto la loro attività per mancanza di prede; quanti esemplari avranno immagazzinato abbastanza energia per riprodursi o anche solo per sopravvivere all’inverno?

Non è solo il sottobosco a soffrire. Un occhio attento non può non cogliere il lamento che viene dai nostri alberi e dalla nostra flora in gran parte non adatta a questo clima e questa aridità. Non solo i terribili incendi, non solo gli alberi morti (come tra noi umani, soprattutto giovani e anziani), ma anche gli alberi che perdono le foglie in un autunno iniziato a luglio. È doveroso porsi delle domande.

Cosa significa un albero con meno foglie? Significa meno cibo per gli insetti che le brucano e di conseguenza meno cibo per gli uccelli e a caduta per molte altre categorie di animali. Un albero stressato lascia cadere i frutti prima della maturazione. Quanti meno frutti e semi saranno disponibili per gli animali in autunno, nella stagione in cui molti di essi hanno bisogno di immagazzinare energie per affrontare l’inverno? Ma meno foglie significa anche meno rifugio e protezione per gli animali e soprattutto per il suolo. Proprio ora che ne avremmo più bisogno, il suolo è più nudo al calore, al vento e all’erosione delle precipitazioni, che inevitabilmente arriveranno in maniera estrema. In una reazione a catena che rischia di autoalimentarsi. La siccità agevola l’erosione. L’erosione, scoprendo e assottigliando i suoli, favorisce la siccità. Anche le argille che garantivano l’esistenza di molti corpi d’acqua, una volta totalmente seccate e crepate, possono veder compromessa la loro impermeabilità.

Non è affatto detto che l’atteso ritorno delle piogge riporterà tutto com’era prima. Non sappiamo ancora quali saranno le conseguenze di un’annata così anomala. Ed è proprio il fatto di non conoscerne le conseguenze ciò che di più dovrebbe renderci attenti al problema.

Ciò che abbiamo visto accadere in Friuli Venezia Giulia in questa estate del 2022 è oggettivamente tragico. E potrebbe essere il nostro nuovo presente. Un nuovo presente che ci richiama alle nostre responsabilità verso la gestione delle risorse idriche, che poi significa la gestione dell’intero ecosistema vitale. Noi compresi.

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